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ri sono rarissime. Tale era la sua amicizia con De Meis, con De Luca, con Vertunni, con Morelli. Si figuri la moglie, donna superiore, che intendeva e apprezzava quel tesoro, e notava tutte le delicatezze di un affetto sempre nuovo e sempre uguale. Gli uscì detto una volta ch'egli studiava a temperare la violenza della sua natura e a purgarsi di qualche difetto per ben comparire innanzi alla sua compagna.

Ben comparire era un altro de' suoi vocaboli, o piuttosto la febbre del ben comparire, perchè in quel cuore così caldo tutto aveva violenza di febbre. Bisogna aver la febbre del ben comparire, diceva ai suoi impiegati. E la febbre l'aveva prima lui. Nè ci era minimo ufficio, dov'egli non mettesse tutta quella sua febbre d'azione. L'avvocato, il medico, il magistrato pigliano a poco a poco l'abito dell'ufficio, e quella prima febbre della gioventù cede sino alla indifferenza. Diomede rimase sempre giovane, sempre sulla breccia in atto di combattere. Non dava tregua a sè, non dava tregua agli altri. Il suo calore aveva una forza di espansione, che si comunicava a tutto, dava impulso a tutti. Non gli bastava fare il suo dovere, voleva farlo mettendoci dentro tutta la sua vita, consumandovi tutta la sua forza. Questo era quello ch'egli chiamava la febbre del ben comparire.

I discorsi annuali di apertura diventano per il magistrato un esercizio abituale di dottrina, e a lui toccò di farne parecchi. Ma ciascuna volta era come la prima volta e gli metteva in tumulto tutta l'esistenza. Giorni di martirio coronati dal trionfo. Perchè a lui non bastava il successo, voleva il trionfo. Un suo discorso doveva essere un avvenimento, con effetto eguale alla intensità e potenza di volontà che ci aveva messo dentro. Chi tenesse conto di tutte le emozioni e le ansietà di quei giorni, potrebbe dire che in ciascuno di quei trionfi egli lasciava una parte della sua vita. Pure quali magnifici trionfi!

Vid'io vecchi senatori fuori di sè, quando tuonava contro Persano, e dicevano: mai non s'è visto tanto entusiasmo. Ma l'entusiasmo abbrevia la vita, e quel discorso fu più micidiale a lui che a Persano. Costui vive ancora.

Si capisce dunque perchè quel suo scrivere era sempre animato. Gli è che c'era colà dentro non solo tutta la serietà dell'ingegno, ma tutta la potenza dell'affetto, o per dir meglio, il cuore era parte del suo ingegno, e lo scaldava, gli dava l'anima. Perciò il suo discorso commoveva. Già a sentirglielo dire con quella voce concitata, con quell'accento vibrato, eri commosso e non sapevi ancora di che. Quell' uomo li non ti permetteva l' indifferenza e non la distrazione, e ti comandava, e ti tirava, s'impossessava di te. Quel calore che metteva nelle sue azioni, metteva nelle sue parole, e ti faceva venire la sua febbre, o parlasse a Maria, la figliuola di Scialoja, o alle fanciulle de' Miracoli, o al Consiglio Comunale, o a Magistrati e Avvocati.

L'ultimo suo discorso fu il canto del cigno. In un paese dove non è ben chiara la linea che separa la mediocrità dall'ingegno, e dove la maggior trafittura è di veder gli stessi applausi e le stesse lodi che a te largite ad uomini su cui ti senti si alto, avvenne quel di qualcosa d'insolito. L'aspettazione era grande; il successo avanzo ogni aspettazione. Fu un impeto di applausi, una commozione, in mezzo alla quale cadde colpito da sincope il più commosso di tutti, l'oratore. E non tornò più. E non lo videro più che sulla bara.

Vita breve ma più lunga di molte vite decrepite, se la vita si misura non dal tempo ma dalla sua intensità. Il piacere e il dolore producevano su di lui impressioni troppo vive: il reale lo pungeva troppo coi suoi inganni e i suoi disinganni: fino un articolo scortese di giornale era per lui un avvenimento, e gli accelerava i battiti della vita. Perchè il povero Diomede non immaginava

niente come immaginario; quello che immaginava era quello che voleva e si sentiva la forza di acquistare; e la sua forza era grande, e grandi erano i desiderii; a quella vita così piena bisognavano tutti i godimenti della vita. Nell'esilio spesso lo vedevo triste di cosa che a me non passava pur la pelle. E ti par poco? gli scappò un giorno: non avere un cane che mi spazzoli. Tutto ciò che immaginava era bello, elegante, grandioso, ricco: il dolore della privazione saliva sino all'altezza del suo desiderio. Molti nell'esilio erano detti martiri, che si sentivano felici, io per il primo che vedevo nuovi cieli, e quasi non avvertivo le privazioni; il vero martire fu lui, che ruggiva, come un leone, tra quegli ozii e que' lavori forzati e quelle indegne miserie. Pur venne il dì. E la fortuna gli andò incontro col suo più bel sorriso, e si lasciò prendere, come una fata, e gli appagò tutti i desiderii. Com'era contento! Che bel lusso era il suo tra amici e artisti accanto alla donna amata! Che gusto e che eleganza nella ricchezza! Il suo salotto era una poesia. E come ci stava bene lui, come ci troneggiava! Prendeva aria di protagonista, amava il potere, come uomo di azione, e lo usava bene, e lo godeva, gl'illuminava quel sentimento in lui così vivo della dignità personale. Così passava il tempo, e la vita correva troppo veloce. E quando la ci pareva quasi ancora nel primo fiore, scomparve.

Amò troppo. Visse troppo. E non pare possibile ch'ei non ci sia. Io lo vedo sempre li innanzi a me.

INNANZI AL FERETRO

DI

FRANCESCO DE LUCA

Ecco, tu hai intorno a te a dirti l'estremo vale i tuoi fratelli e gli amici del cuore, e non quelli della ventura. Una trista consolazione è pure la nostra, che presso a quel cadavere non c'è nessun occhio ipocrita che lo profani. Tu hai intorno quelli soli che avresti voluto, e che amavano e stimavano te, e si sentivano da te stimati e amati.

Voi l'avete visto, là nella Camera dei Deputati, sempre al suo posto, non trescare, non dimenarsi, non sollecitare sorrisi, non cercare influenza. Modesto, operoso, di umore sempre uguale, come di uomo superiore ai timori e alle speranze, più s'impiccoliva lui, e più ingrandiva nella stima dei suoi colleghi; meno egli andava agli altri, e più gli altri andavano a lui. E meritò che un bel giorno un centinaio di deputati lo eleggessero loro capo, come sentissero che avrebbero in lui trovata non altra volontà che quella di tutti, non guasta dall'orgoglio, non attraversata da fini e vanità personali. E rimase semplice di modi e naturale, amico tra amici, di una sincerità uguale alla sua devozione, ispirando tale fiducia, che in tutto quel tempo non ci fu segno di tiepidezza o di discordia, ci sentivamo tutti una sola famiglia.

Quando gli parlavi, diceva quello solo che era richie

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