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Ieu cchiù stimari a tia?
Ieu fariti cchiù 'nnormi?
Va curcati, va dormi,
Cosa pri mia nun sì.

Chi c'è? 'un semu cchiù nenti?
E chi? nun sù cchiù chidda?
A la tua crucchiulidda

Nun ci fai cera cchiù?

Figghioli, 'un c' è cchiù munnu,
E cui lu vulìa diri?

E cumu la sai tutta
Davanzi billi balli,

Darreri pri tri calli

Tu canci anchi a lu re.

Sdegni, gelosie, vanità, dispetti, malizie, ipocrisie insinuano in questa bella natura una grande varietà di motivi grotteschi e scherzosi. Fra le più spiritose è l'egloga Pidda, Lidda e Tidda, dove la strofa cantata da Lidda così piena di foco, così scintillante di malizia è rimasta nella memoria di tutti:

Quannu a Culicchia jeu vogghiu parrari,
Ca spissu spissu mi veni lu sfilu,

A la finestra mi mettu a filari;
Quann' iddu passa poi, rumpu lu filu;
Cadi lu fusu, ed eu mettu a gridari:
Gnuri, pri carità pruitimilu;

Iddu lu pigghia; mi metti a guardari ;
Ieu mi nni vaju suppilu suppilu.

Grottesco, grossolano, pure attraente, perchè impastato dalla natura e prorompente dall'intimo midollo della vita, dominato da note dolcissime, da motivi più vivaci e più teneri:

Spacca l'alba da lu mari
Eccu già lu suli affaccia.

Senti comu da li rami
Ciuciulianu l'oceddi

E li pecuri e l' agneddi,
'Ntra lu chianu fannu 'mmè.

Duci sonnu venitinni

Supra st' occhi chianciulini.

Lo stesso dolore geme con soavità molle e ti ricrea e ti alletta l'orecchio e il core, com'è in quel capolavoro che è intitolato Polemone. Non solo ci è il sentimento della natura, ma questo sentimento è voluttuoso. Il poeta si sente uno con quella e la desidera e la gode, e l'ardore del desiderio glie la ingrandisce, le dà proporzioni straordinarie, come certe statue colossali, pur colte dal vero, perchè rispondono all' impressione. Nessuno stima che ci sia esagerazione, quando il poeta dice:

Occhiuzzi niuri, “

Si taliati,
Faciti cadiri

Casi e citati.

Lu pettu s' agita,

Lu sangu vugghi,

Su' tutti spinguli,
Su' tutti agugghi.

Un sentimento voluttuoso illuminato dalla grazia e dalla delicatezza è nella regina delle sue odi, ch'egli intitola Lu labbru, e che il popolo ha battezzato con questo nome l'apuzza nica:

Dimmi, dimmi, apuzza nica,
Unni vai accussì matinu?

Nun c'è cima ch'arrussica

Di lu munti a nui vicinu.

Parte di questa potenza si deve al dialetto. Come Dante e Petrarca furono bene ispirati a lasciare il latino e poetare in volgare, bene ispirato fa Meli. L'Arcadia trasportata nel dialetto acquista una virtù nova. Un pensiero insipido e volgare, se lo incontrate in una lingua straniera, vi par nuovo. Ed è nuovo effettivamente, perchè la parola straniera te lo porge in un' altra immagine. sotto un altro aspetto. Questo sentite nel dialetto, dove vi brilla innanzi e vi stupisce quella che nella esausta parola italiana ha perduto ogni sapore. E qual dialetto! dove è una melodia che ti spetra e t'intenerisce, quando pure che i sentimenti non sieno teneri, una melodia sino alla tenerezza, e punto monotona e addormentatrice, come una ninna nanna si che degeneri in cantilena. (Benissimo).

Non te ne dà il tempo la velocità di questo dialetto sveltissimo com'è l'ingegno siculo, pieno di scorciatoie • di abbreviazioni, con trapassi rapidissimi, tutto parola propria e piena di senso, senza frasi, senza circonlocuzioni e mai non stagni, e corri corri. (Benissimo)

Conchiudo. Il Meli trovò una vecchia letteratura e trasportandola nel suo dialetto vi spirò la freschezza della gioventù, ne fece il mondo della verità e del sentimento. Quel mondo della naturalezza e della verità che Parini e Goldoni predicavano, Meli l'aveva già bello e creato! (Fragorosissimi e ripetuti applausi che si protraggono fin nella strada).

L'Oratore in mezzo un crocchio di plaudenti dice: Come l'acqua col suo mormorio dice all'erba: addio! anch' io dico a voi : addio!

E se è vero che la patria è non dove si nasce, ma dove si trova comunione di affetti e di sentimenti, oggi io mi sento vostro concittadino. Addio!

PAROLE IN MORTE DI LUIGI SETTEMBRINI

Amici Miei,

Quell'uomo li senza vita era nel 1835 un bel giovane a ventidue anni, e portava nell' anima il lutto di suo padre, morto qualche anno addietro, e la vita di suo padre. Tra indefessi studii greci e latini nella giovine mente si moveva accanto agli eroi di Livio e di Plutarco l'immagine di suo padre, il quale a lui, dotto di storie antiche, insegnava la storia recente del suo paese, che noi sogliamo compendiare in una sola parola pregna di memorie e d'insegnamenti, il novantanove. E il padre vi aggiungeva la storia sua, giacobino imberbe, soldato al Ponte della Maddalena, ferito, straziato, trascinato dalla moltitudine furibonda, gittato nelle prigioni, scampato per la soverchia giovinezza al patibolo, dannato all'ergastolo in Santo Stefano. Queste memorie il padre lasciava in eredità al giovane.

E ora, orfano e povero, quelle memorie sono la sua ricchezza e il suo avvenire, e insegnando rettorica in Catanzaro, rivive in lui suo padre, e sogna libertà, sogna Italia una, e sognano con lui i De Luca, i Musolino, i Parisio, e passa di mano in mano secretamente, avidamente il Catechismo di Giuseppe Mazzini, e tutti erano settarii, e non ci era setta alcuna. La setta era il pensiero ereditario, ucciso nei padri e risuscitato nei figli, e la tirannide, colpendo sette e cospirazioni, dilatava,

ingrandiva quel pensiero secreto, gli dava la pubblicità de' suoi giornali e delle sue persecuzioni, rendeva quel Catechismo il libro di lettura della gioventù italiana.

Il povero maestro di rettorica voleva dare anche lui un po' di pubblicità al suo pensiero, e avea scritto un dramma, La moglie del Proscritto, pieno di allusioni, che dovea andare in iscena, quando il Governo gli dava la grande pubblicità, gittandolo in prigione, per denunzia di una spia, e Napoli seppe di una grande setta scoperta a Catanzaro, e come qualmente la Giovine Italia era già in Catanzaro, anzi in tutta Calabria.

Quale fu la vita del giovine nelle prigioni di Castelnuovo, dove stette tre anni, lo sapremo per bocca sua, quando leggeremo i suoi Ricordi. Ne uscì più maturo di studi, più gagliardo di fibra. Era un ignoto, divenne celebre, e l'uomo che saliva e scendeva le altrui scale, insegnando e stentando la vita, era già accerchiato dai migliori cittadini, e stimato e voluto bene da' più illustri, carissimo sopra tutti al marchese Puoti. In Napoli trovò, come raccontava lui, una letteratura ventosa che chiacchierava volentieri di libertà, salvo a lasciarla li nella frase, e non pensarci più. Lui, il prigioniero di Castelnuovo, il reo di stato, stava mal volentieri in quell'Arcadia, e si fece una vita a sè, come uno stile a sè. Non fraseggiava, non lumeggiava, non periodava; andava diritto e rapido come chi ha il pugnale in mano e mira al petto e non dà tempo alla parata. Viveva concentrato, e covava una passione terribile sotto a quel suo aspetto bonario e semplice. Venne il momento, e tanta forza accumulata e compressa scoppio, ed ebbe nome la Protesta, e fu insieme un avvenimento politico e un avvenimento letterario. Là per la prima volta compariva quello stile nervoso di cui si era perduta la memoria, che proietta l'anima nell'atto della sua impressione, e non ti pare più voce di un uomo, ti pare voce di

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