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in sè l'ideale, cioè a dire lo realizza, produce una forma, nella quale si appaghi e obblii tutto, obblii in modo che quando altri domandi, cosa è là dentro, risponde: una certa idea, una qualche cosa, un non so che, cioè a dire nulla: la forma è là, e la forma è tutto. La forma è il bambino del nostro cervello, e il problema dell'arte. è di sapere se quel cervello ha forza produttiva, e se quel bambino è creatura vivente, è nato vivo. Disputate pure intorno alla qualità della forma, se sia sottile o corpulenta, bella o brutta, morale o immorale, e del suo concetto e ciò che ci è di reale e ciò che ci è d'ideale: l'essenziale è che sia innanzi tutto una forma. Che nell'arte non si ammette mediocrità è un concetto profondo; perchè non ci è il più o il meno vivo, c'è il vivo o il morto; ci è il poeta e c'è il non poeta, il cervello eunuco. L'indeterminato, il confuso, l'abbozzato, l'abbozzato, lo scarno, l'affettato, l'esagerato, il concettoso, l'allegorico, l'astratto, il generale, il particolare, tutto questo non è forma, è il contrario della forma, è l'informe e il deforme, è l'impotenza, e rivela velleità, non volontà di produzione. Sotto questo rispetto l'essenza dell'arte non è l'ideale nè il bello, ma il vivente, la forma; anche il brutto appartiene all'arte come alla natura; anche il brutto è vivente: fuori del regno e dell'arte si trova solo l'informe e il deforme. La Taide di Malebolge è più viva e più poetica di Beatrice, quando è pura allegoria e risponde a combinazioni astratte. Il bello! ditemi dunque se ci è cosa alcuna sì bella come Jago, forma uscita dal più profondo della vita reale, così piena, così concreta, così in tutte le sue parti, in tutte le sue gradazioni finita, una delle più belle creature del mondo poetico. Ma quando ci lanciamo a gonfie vele in una regione anteriore alla forma, a forza di bisticciare sull' idea, sul concetto, sul bello reale, morale, intellettuale, confondendo il vero filosofico e morale col vero estetico, e snaturando

le impressioni, noi proclamiamo brutta una gran parte del mondo poetico, e le diamo il passaporto, unicamente come contrasto, antagonismo, rilievo del bello, e accettiamo Mefistofele come rilievo di Faust, e Jago come rilievo di Otello. Così la buona gente credeva in illo tempore che gli astri stanno lì per tener la candela alla terra.

Se nel vestibolo dell'arte volete una statua, metteteci la forma, e in quella mirate e studiate, da quella sia il principio. Innanzi alla forma ci sta quello che era innanzi alla creazione: il caos. Certo, il caos è qualche cosa di rispettabile, e la sua storia è molto interessante; la scienza non ha detto l'ultima parola su questo mondo anteriore di elementi in fermentazione. Anche l'arte ha il suo mondo anteriore; anche l'arte ha la sua geologia, nata pur ieri e appena abbozzata, scienza sui generis, che non è critica, nè estetica. Apparisce l'estetica quando apparisce la forma, nella quale quel mondo è colato, fuso, dimenticato e perduto. La forma è sè medesima, come l'individuo è sè stesso, e non ci è teoria tanto distruttiva dell' arte quanto quel continuo riempirci gli orecchi del bello, manifestazione, veste, luce, velo del vero o dell'ideale. Il mondo estetico non è parvenza, ma è sostanza; anzi è esso la sostanza, il vivente; i suoi criterii, la sua ragione di esistere non è in altro che in questo solo motto: Io vivo. I nostri sensi bastano a farci comprendere della natura quello che è vivo e quello che è morto; nel regno dell' arte il senso del vivo, del reale è poco sviluppato, e non rado avviene che i critici ragionino lungamente d' un'opera d'arte, come di cosa viva, ed è nata morta, e la chiamano bella, e ci trovano l'ideale, e l'alzano a modello! Lasciamo tranquilli coloro che oggi son detti poeti; ma quanto tempo non si è sciupato sulla Basvilleide di Vincenzo Monti? E non è popolo artistico se non quello che sappia misu

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rare l'infinita distanza che separa l'ingegno dal talento, la creazione dall' aggregazione, e intenda perchè sono collocati si alto Omero, Dante, Shakspeare, Ariosto. Ma, se vogliamo acquistare il senso del vivo, cominciamo col rovesciare i termini del problema estetico, e domandare al poeta non quanto abbia saputo idealizzare, ma quanto abbia potuto realizzare. In luogo di artialiser la nature proviamoci a naturaliser l'art.

Un lavoro resta a fare, ed è determinare ciò che è vivo e ciò che è morto. E ci accorgeremo che nel Petrarca è morto tutto ciò che è imitato ed imitabile, il doppio petrarchismo, il rettorico ed il platonico. Molto vi è rimasto di vivo; e intenderemo pure che, se in questa vita ci è il manchevole e lo stanco e il meccanico, gli è perchè non abbondò in lui, come ne' sommi, la potenza generativa, la virilità, la forza del realizzare; giungendo a questa conclusione, che quello che gl'idealisti reputano a sua gloria, fu appunto sua debolezza.

Un lavoro così fatto non sarà il panegirico del Petrarca, ma sarà il Petrarca vero, come lo desiderava Mézières.

MASSIMO D'AZEGLIO

Nel 1815, quando s'instaurava dappertutto l'Europa feudale e dispotica sotto le baionette della Santa Alleanza e le benedizioni di Pio VII, i Principi, ritornando alle loro Reggie rimettendo tutto a vecchio, inviarono ambasciatori al venerabile Pio per rallegrarsi seco del suo ritorno. Partiva da Torino co' figliuoli e con pomposo seguito Cesare d'Azeglio, appartenente a' primi gradi dell' aristocrazia e della milizia, e andava a inchinarsi ai piedi del Sommo Pontefice prestandogli omaggio, e rallegrandosi con lui che oramai la porta delle rivoluzioni era chiusa e l'ordine regnava in Europa. La scena dovette essere commovente; il buon Pio dopo i dolori dell'esilio dovette accogliere con tenera espansione le regie felicitazioni; e il gentiluomo piemontese dovette con perfetta buona fede ritrargli il quadro della nuova èra che si apriva in Europa d'ordine e di pace, che si chiamava la ristorazione. La voce severa dell'avvenire non entrò a turbare que' momenti di credulo obblio ne' quali Pontefice e Ambasciatore dovettero sentirsi felici; altrimenti quella voce avrebbe potuto susurrare all' orecchio del gentiluomo piemontese: bada, Cesare d'Azeglio; mentre tu parli di ristorazione, la rivoluzione ti entra in casa; dove hai lasciato tuo figlio? Mentre il padre arringava Pio VII, Massimo, il figlio, di poco più che 15 anni, andava per le vie di Roma contemplando i monumenti e

ricevea le prime impressioni della grandezza italiana. Invano il padre avea fatto di lui una guardia urbana della ristorazione; chè il giovinetto, sotto a quella divisa, segno di tempi andati, sentia svegliarsi già nell' animo l'uomo nuovo alla vista di que' monumenti che dicevano patria, libertà, gloria, grandezza nazionale, Roma, Italia. Il buon Cesare d'Azeglio non tenea conto della nuova generazione, e promettea troppo al Pontefice della sua Torino; non sapeva che di mezzo ai teologi sarebbe sorto Vincenzo Gioberti, di mezzo ai cattolici sarebbe sorto Cesare Balbo, di mezzo all'aristocrazia sarebbe sorto Cavour, e gli sarebbe sorto in casa Massimo d'Azeglio.

Questo grande italiano ha vissuto abbastanza per veder quasi compiuto il lavoro della nuova generazione, della quale è stato si gran parte. Egli ha fatto il suo dovere, e noi oggi adempiamo il nostro onorando con pubblico lutto la sua memoria e commemorando la sua vita.

Nella storia di Massimo d'Azeglio c'è un po' la storia di tutti; ogni uomo di qualche valore ha dovuto, come lui, prima subire una cattiva istruzione, poi ristudiare, rifarsi una educazione, aprirsi lui la propria via; e quando giunse l'ora dell' opera ha dovuto gittarsi dietro gli studii e divenire soldato d'Italia.

Massimo d'Azeglio ha dovuto lottare sino a venti anni contro i maestri, contro la famiglia, contro la sua classe, contro quello spirito redivivo del medio evo che si chiamava la ristorazione. Il suo maestro, un ecclesiastico, lo tribolava col suo latino, e con la storia antica, co' medi, gli assiri, i persiani, gli egiziani. Al padre dovea parere un capriccioso. E il suo capriccio era che volea andare a Roma, e farsi artista. Roma gli ha guasto il capo, dicea il padre. Come cadetto di nobil famiglia, Massimo non potea essere un' artista; dovea essere o prete o soldato. A sedici anni fu dunque fatto ufficiale di cavalleria. Era

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