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stiano è qui drammatizzato. Ciascuno ricorda la grande impressione che fa la voce dell' Angiolo nel Faust, quando dice di Margherita: È salvata! mentre Mefistofele si affrettava a dire: è mia. La stessa impressione fa qui quel terribile: È dannato ! quando il romito domandava qual luogo gli era riservato in paradiso. Il dramma comincia veramente qui: tutto l'altro è antecedente. Il turbamento del romito, la confusione della sua mente, il suo dolore di essere stato forse egli cagione con la sua domanda indiscreta della perdizione del giovane, le insidie del demonio, la costanza e tranquillità del giovane, le ardenti suppliche del romito a Dio sono il movimento e il processo del dramma, che si scioglie liricamente in una lauda, quando l'Angiolo annunzia: È salvato!

Ma questo non è che uno scheletro di dramma, nella rozza semplicità della prima concezione. Il frate raffazzonatore ha potuto ripulirlo, appiccarvi anche qualche scena, come è probabilmente la tirata del compare contro i frati, e la preghiera del romito perchè Dio riformi la sua legge guasta dal Pastore, ma non ha saputo mettervi sangue e polpa. I personaggi sono astrazioni; i fatti e le passioni appena indicate: pare un progetto di dramma, anzi che il dramma.

Sento qui dentro il frate; ma non vedo l'artista. E non c'è pure nessuna intenzione artistica.

Il frate ha voluto fare una rappresentazione nel convento, come si facevano nelle chiese e per le piazze. E così intuonando il novizio un canto alla vita contemplativa, il frate avverte che dee esser cantato come i rispetti, versi d'amore in bocca al popolo. Quest'uso d'introdurre ne' chiostri le rappresentazioni e i canti popolari, voltando a fini religiosi le forme usate ne' pubblici intrattenimenti, mi ricorda le commediole che i gesuiti componevano espressamente pe' loro convittori. Il fine

dell'autore è di ammaestrare i frati con una dilettevole rappresentazione. E n'è uscito il dramma claustrale.

Il fatto è pigliato da qualche antica leggenda, come la più parte delle rappresentazioni. Non si sente un pensiero originale. Il frate non ha sentito, nè compreso quale magnificenza di concetto aveva innanzi, e lascia cadere nel vuoto i più interessanti contrasti drammatici. Ci è qua e là qualche lampo d'affetto, come nell'addio della madre e nella scena del romito dopo il primo annunzio dell' angiolo, soprattutto quando tra dire e non dire si lascia uscir di bocca la terribile notizia. Tutto l'altro è insignificante. Manca al frate la chiara percezione del concetto che ha alle mani, e perciò divagasi e riesce in luoghi comuni. Il fatto di cui dà la rappresentazione non ha per lui altra importanza che di un esempio e di un ammaestramento, e spesso avverte che le parole del tale e tale personaggio servono a mostrare questo e questo. Perciò il fatto non ha valore proprio, non alletta la pigra ' immaginazione del frate, non gli scalda il cuore; il concetto rimane inerte. Lo stesso protagonista è poco più che una figura allegorica. Il romito è più interessante, perchè è più uomo. Ma il giovane è astratto come una idea e rigido come una regola; ha la calma e l' immobilità del puro divino. Così com'è concepito, sarebbe un personaggio non drammatico, ma lirico, con le sue estasi, le sue visioni, i suoi inni, le sue orazioni, così come sono le figure del beato Angelico; ma l'autore non ha caldezza di cuore, e i suoi canti e le sue orazioni mancano di unzione e di affetto.

Nondimeno così com'è questa rappresentazione claustrale è di non piccolo interesse nella storia della letteratura. Il gran problema al medio evo è l'arte della santificazione, il modo di salvarsi l'anima: di che è uscita la Divina Commedia. Questo problema eterno della scienza e dell'arte, che con linguaggio moderno si direbbe del

l'umana destinazione, è la base di questa rappresentazione. A prima vista il senso del dramma pare che sia: Fa il bene e non cercare il destinato. Ma il destinato è il centro dell'azione e dello sviluppo, è la gran quistione del dramma: il giovane sarà dannato o salvato? La soluzione comune a tutta quell'epoca era questa, che la miglior via di salvazione era contrastare alla carne, fuggire il mondo, orare e contemplare. Ebbene, facendo così, il giovane è dannato. Qui è l'interessante e il nuovo del concetto. La mistica del medio evo è oltrepassata; non è solo la carne assorbita dallo spirito, ma è lo spirito assorbito da Dio.

Come storia de'concetti umani nel loro cammino scientifico e artistico, questo dramma non è dunque senza importanza; nè io ho fatto opera vana pubblicandolo.

Questo concetto veramente claustrale ed ultra spiritualista della santificazione può produrre una lauda, non può produrre un dramma. Il dramma c'è, ed è la battaglia prima tra il senso e la ragione, poi tra la ragione e Dio. Ma la prima battaglia è cessata, e il dramma comincia quando la ragion vince, e il senso è vinto, vale a dire comincia il dramma, quando è già finito, il sipario s'alza quando dee già calare. La seconda battaglia è tra la ragione e Dio; la ragione è il demonio tentatore sotto aspetto del compare, che con argomenti umani assale il giovane. Ma la battaglia rimane esterna e a parole; non penetra nella coscienza del giovane. Perciò il dramma riesce esterno e simbolico; l'anima tranquilla e monotona vi è estranea. Mettete la battaglia nell' anima, dividetela, straziatela, e avrete il carattere, la passione, la vera collisione interna, senza di cui non è dramma. Allora il terreno insegue il santo e si fa valere sino nel chiostro e nel deserto, lo spirito si pone di rincontro a Dio nella sua libertà e personalità; nasce l'eterno due, la lotta tra l'umano e il divino, che va a finire in un: Dannato! o in

un: Salvato! Perciò Adelaide e Comingio, Abelardo ed Eloisa sono personaggi claustrali drammatici; il nostro giovane non è che un personaggio lirico. E chi si addentra in queste considerazioni, e nota quanta prevalenza ebbe a quel tempo in Italia questo misticismo astratto e simbolico, la cui formola te la dà questo dramma, ed è l'assorbimento dell' umano nel divino, vedrà perchè l'Italia potè anche avere una lirica, potè anche avere la Divina Commedia, ma non potè avere il dramma.

LA PRIMA CANZONE DI GIACOMO LEOPARDI

Nel 1818 furono pubblicate in Roma due canzoni di Giacomo Leopardi, appena allora in su'venti anni, precedute da una lettera dedicatoria al cav. Vincenzo Monti. Costui o non rispose punto, o rispose, secondo alcuni, con una di quelle lettere generiche di ringraziamento e di lode che non vogliono dir nulla. Il giovine poeta era già tenuto in molta stima dal cardinal Mai, principe degli eruditi, e dal principe de' letterati, Pietro Giordani, e già destava di sè grande aspettazione per gli studii straordinarii e chiamati miracolosi della sua eroica fanciullezza. Pur non sappiamo che quelle due Canzoni levassero dal principio molto grido, ancorachè uscite sotto gli auspicii di un uomo autorevolissimo e a quel tempo incontrastato giudice del buono e del cattivo poetare. Non mancarono i soliti pedanti che vi notarono qualche errore di lingua1; nè gli altri più intollerabili, che lodavano la purezza del dire e l'erudizione e l'odore di classicismo. Vo'dare un saggio del modo con che si lodava a quel tempo. E cito uomo dottissimo e di non comune levatura, il prof. Pietro Pellegrini, del Giordani e del Leopardi grande ammiratore. Il quale, volendo lodare la versione di Dionigi, pubblicata nel 1816, ragiona a questa guisa: «toccherebbe, ci dicono, il perfetto, chi l'au

1 Il Leopardi vi rispose con le sue dotte Annotazioni, pubblicate a Bologna il 1824.

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